L’evoluzione delle direttive sociali a 30 anni dal recepimento. Sono passate ben tre decadi dal recepimento della Direttiva sociale 89/391/CE attraverso il D.Lgs. n. 626/1994, poi sostituito dall’attuale D.Lgs. n. 81/ 2008. Dopo 30 anni di applicazione è legittimo chiedersi se questo approccio stia funzionando, se un miglioramento, ancorché non ultimato, è comunque avvenuto o se, piuttosto, occorra correggere il tiro.
Dal punto di vista statistico, per quanto riguarda l’andamento delle denunce degli infortuni (morali e non) dal 1994 al 2022, questo è costantemente decrescente, ma ci sono delle valutazioni ulteriori da fare prendendo in considerazione altri aspetti (che qui non vengono ponderati) come le morti da malattia professionale, i lavoratori non regolari e non assicurati presso Inail, la durata e gravità degli infortuni, il tasso di incidenza rapportato al numero di ore lavorate.
Osservando la Figura si vede come l’andamento decrescente si sia arrestato da un decennio. Se è indubbio che dal 1994 vi sia stata una crescente applicazione da parte delle aziende italiane delle norme di sicurezza, va anche riconosciuto come l’emanazione degli accordi Stato-Regioni del 2011 (la formazione di lavoratori, dirigenti e preposti) non ha prodotto alcun effetto visibile sull’andamento degli infortuni.
Altro aspetto è il ruolo delle direttive di prodotto e l’adozione di nuove attrezzature, conformi alla Direttiva macchine che ha determinato un incremento della sicurezza del macchinario, nonché effetti collaterali meno visibili rispetto ai canonici infortuni, in particolare in termini di carico di lavoro mentale.
In sintesi: tale diminuzione è completamente merito delle normative?
Dal 2011, con gli Accordi Stato-Regioni, la formazione sulla sicurezza si è strutturata in un sistema normato e rigido, spesso ridotto a un obbligo burocratico. Milioni di lavoratori hanno seguito corsi che, più che formare, trasmettono nozioni tecniche. Ma la formazione non può limitarsi alla sola istruzione. La normativa stessa (D.Lgs. 81/08, art. 37) la definisce come un processo di acquisizione di competenze, che non si esaurisce nella conoscenza di norme e rischi, ma include capacità decisionali, problem solving e consapevolezza.
Un approccio efficace deve quindi integrare metodi esperienziali e interattivi, superando la semplice trasmissione di contenuti per sviluppare competenze realmente applicabili sul lavoro, come la risoluzione dei problemi, la modalità con cui si affrontano le difficoltà in ambito professionale con determinazione, la leadership, l’ambiente lavorativo motivante, una mentalità positiva e orientata alla tutela della persona, la consapevolezza (e valutazione) e non la mera conoscenza dei rischi a cui si è esposti.
Negli ultimi 12 anni, la formazione sulla sicurezza si è trasformata in un adempimento burocratico, fatto di attestati e registri, senza reali effetti sulla riduzione degli infortuni. Più che migliorare le competenze, il sistema sembra puntare solo alla conformità normativa. Non ci si può stupire se tutto questo formalismo, accompagnato da pesanti sanzioni (sospensione dell’attività imprenditoriale, duplicazione o triplicazione degli importi delle sanzioni se le violazioni riguardano più lavoratori) abbia fatto sì che molte aziende si siano più concentrate sugli aspetti burocratici (rispetto delle scadenze, attestati, ecc.) che non sull’obiettivo reale.
Come poter riportare l’attenzione all’obiettivo reale della formazione? Ecco alcuni spunti da approfondire e tenere in considerazione per la creazione di “processi educativi” e di “percorsi formativi” di valore:
Come sappiamo, l’art. 28 del D.Lgs. 81/08 prevede che la valutazione dei rischi debba essere fatta per “tutti i rischi” presenti. La convenzione attuale si basa sulla convinzione che la sicurezza possa essere basata sull’anticipazione esaustiva di tutte le potenziali minacce e sulla predeterminazione di tutte le risposte (sicure) previste, salvo poi rivedere e migliorare l’analisi anche sulla base degli incidenti e near miss avvenuti.
Ogni incidente spinge ad ampliare la valutazione dei rischi, nella convinzione di poter eliminare l’imprevedibile. Ma più il sistema si raffina, meno segnali critici emergono, riducendo la nostra capacità di apprendere e adattarci. Purtroppo, diversamente da quanto sinora ritenuto, l’incidente non è la manifestazione dovuta alla scarsa implementazione di un paradigma efficace, ma la ragionevole conseguenza di un paradigma di efficacia limitata.
Parafrasando l’art. 2, comma 1, lett. q), D.Lgs. n. 81/08, la valutazione dei rischi è una valutazione documentata (il DVR), riguardante tutti i rischi dell’organizzazione che possono avere conseguenze per i lavoratori. Lo scopo della valutazione è la definizione delle disposizioni necessarie in termini di prevenzione e protezione per minimizzare i rischi individuati, garantendo l’evoluzione in meglio dei livelli di sicurezza nel futuro. Cosa si fa nella pratica?
Si parte da un esercizio di osservazione e immaginazione: si osserva la realtà e da essa si estraggono i “pericoli” oppure- quando ancora un’attività è in fase di progettazione – si studia un fenomeno e si ipotizzano degli scenari e come potrebbero verificarsi. In una fase successiva le evidenze e le conoscenze vengono messe a sistema e, che si tratti di pericoli individuati o scenari ipotizzati, si valutano le probabilità e le conseguenze ad essi associati. Ciò servirà a distinguere ciò che è tollerabile o accettabile da ciò che non lo è, e a fornire una gerarchia di priorità.
Questa la teoria: in pratica, chiunque abbia un minimo di esperienza di valutazione dei rischi sa quanto esse siano principalmente affette da due grandi limiti:
Un rischio non immaginato, molto banalmente, verrà ignorato tanto quanto un rischio non conosciuto. Ma, a differenza della conoscenza, l’immaginazione non si studia. Così, nonostante immaginare uno scenario sia un esercizio di prospettiva futura, a tutti gli effetti diventa un ricorso al passato: ci si avvale cioè dell’esperienza, richiamando alla memoria situazioni analoghe (o apparentemente tali) comprensive dei loro esiti per stabilire se esse siano sicure o meno.
L’individuazione dei pericoli basata sulla conoscenza scientifica è solida ma incontra il limite della complessità, soprattutto nei sistemi sociotecnici, dove tecnologia, organizzazione e fattori umani si intrecciano in modi imprevedibili. Le valutazioni qualitative, inevitabili in questi contesti, sono soggette a bias e pressioni esterne. Di fronte a questa incertezza, l’uso dell’immaginazione non è un’alternativa alla conoscenza, ma un complemento necessario per anticipare scenari non ancora codificati.
Nessuna valutazione dei rischi comprende la misura dell’incertezza di cui è affetta. In sintesi: si eseguono, stime senza nessuna indicazione della loro accuratezza e si prendono decisioni sulla base di queste stime, senza alcuna base scientifica.
Il documento di valutazione dei rischi (DVR) ha evoluto la sua funzione, diventando sempre più un mero strumento difensivo, non tanto contro gli infortuni, quanto contro le possibili contestazioni da parte degli organi di vigilanza e le eventuali ripercussioni legali. Se da un lato il DVR dovrebbe concentrarsi esclusivamente sull’individuazione delle situazioni non sicure, dall’altro tende sempre più a enfatizzare ciò che è stato fatto per dimostrare la sicurezza, piuttosto che focalizzarsi sulle aree vulnerabili.
Ciò che davvero conta, tuttavia, è che il DVR raccolga evidenze delle condizioni di non sicurezza, cercando di anticiparne gli effetti prima che si concretizzino in incidenti o danni. Per farlo, è fondamentale costruire una leadership consapevole e capace di dare la giusta attenzione anche alle criticità più piccole, creando una cultura della sicurezza partecipata, in cui i lavoratori siano incoraggiati a condividere le proprie osservazioni e a segnalare ogni anomalia, anche se di portata minima. Solo attraverso questo approccio proattivo si può sperare di ridurre realmente i rischi, evitando che la sicurezza diventi un’etichetta piuttosto che una reale prassi.
La leadership sulla sicurezza è una delle soft-skill fondamentali di datore di lavoro, dirigenti e preposti, ma il suo esercizio oggi coincide – grosso modo-con l’adempimento degli obblighi imposti dal D.Lgs. n. 81/2008. I leader sono concentrati sull’applicazione degli obblighi normativi che, per effetto della burocratizzazione, si sono svuotati di contenuti: i responsabili delle aziende dicono alle persone cosa fare per lavorare sicuri, organizzano i corsi di formazione, definiscono le misure di prevenzione e protezione e controllano che esse vengano rispettate. L’approccio “gestionale” è concentrato sul “cosa si fa” e spinge le persone a “fare cose”.
Un approccio basato sulla leadership “della sicurezza” è, invece un approccio concentrato sul “come si fanno” le cose, integrandolo con gli obiettivi generali dell’organizzazione. In queste aziende non esiste una distinzione tra “lavoro” e “sicurezza”: l’unica modalità concepibile di operare è quella sicura e tutti – lavoratori compresi – sono coinvolti “(e)motivamente”, cioè con il cuore e con le motivazioni. I leader non si limitano a dire agli altri cosa fare e a gestire i processi perché le cose si facciano, ma sono impegnati a far capire perché quello è il modo giusto di operare, comunicano la loro visione della sicurezza come valore intrinseco degli obiettivi di produzione, spingono il piede sull’acceleratore della credibilità, mettendo in gioco loro stessi attraverso la coerenza tra ciò che dicono e ciò che fanno.
Questo approccio è molto più orientato alle persone, sviluppa la cultura della comunicazione da parte di chi è impegnato in prima linea nel rilevare gli scostamenti tra come il lavoro è stato progettato (le procedure) e come il lavoro viene o può essere concretamente eseguito.
Ecco, quindi, cosa diventa fondamentale inserire nelle organizzazioni:
Il combinato tra leadership e partecipazione dei lavoratori consente al sistema di reagire rapidamente con soluzioni efficaci:
Considerazioni e spunti da (fonte): Igiene & Sicurezza del Lavoro 12/2024
Le Direttive sociali a 30 anni dal recepimento: lo stato dell’arte – di Andrea Rotella